Corleone, 17 novembre 2017 – Alle 3 e mezza del mattino si è spento, dopo un ventennio di carcere duro, Salvatore Riina. Totò u curtu, così lo ingiuriavano a Corleone gli amici della giovinezza, quando ancora non passava e non contava niente non c’è più. Solo qualche piccolo reato ogni tanto, poi la morte del padre e arriva il primo omicidio. Di lì a poco sarebbe entrato nella cerchia degli uomini che contano, prima come picciotto di Liggio, nella guerra contro il capomafia Navarra, poi come capo indiscusso di Corleone, e poi ancora come capo di Cosa nostra. Quel peri ncritati, come lo chiamavano i boss della Palermo bene, aveva fatto terra bruciata intorno a sé. Lupare bianche, omicidi eclatanti, sparatorie erano il suo pane quotidiano.
Oggi Riina è morto. «Il corpo di Riina sarà trasportato nel cimitero di Corleone in forma privata – afferma il Vescovo di Monreale Michele Pennisi a Filodiretto -. Dal punto di vista della legge, anche quella ecclesiastica, non è possibile eseguire funerali pubblici, al limite si può ammettere un momento di preghiera privato all’interno del cimitero, qualora i familiari lo richiedessero».
Oggi Corleone appariva come una città divisa in due. Piazza Falcone e Borsellino si è svegliata con l’assalto dei giornalisti di decine di testate nazionali e internazionali, accorsi per raccogliere le testimonianze dei Corleonesi. Curiosi, giovani, i soliti gruppetti di anziani che frequentano la piazza non parlano d’altro e non si tirano indietro nel commentare la notizia del giorno.
La morte di Riina per qualcuno segnerà il momento della liberazione per Corleone dall’appellativo di città della mafia, è invece un giorno come un altro per altri. «Ci dispiace perché era pur sempre un essere umano, anche i familiari, nonostante tutte le cose che ha fatto, saranno molto dispiaciuti – ci dice un gruppo di ragazzi seduti nella piazza intitolata ai due giudici antimafia -. Noi giovani lo conosciamo solo per sentito dire, attraverso i telegiornali. Qualche volta abbiamo incontrato la moglie per la strada, una persona come tutte le altre».
Diversa è l’atmosfera che si respira nel quartiere che ospita l’abitazione di Ninetta Bagarella. È l’ora di pranzo e il silenzio viene interrotto solo dal rumore di posate che sbattono sui piatti. La gente è in casa, non esce, guarda dalle imposte e non risponde alle domande. Chi viene avvicinato dai giornalisti risponde impettito, si volta dall’altra parte, rientra in casa. «Queste cose non le so e nemmeno mi interessano» commenta un anziano, «Per noi è una brava persona», risponde invece un’indispettita signora mentre esce da un negozio.
«Con la morte di Totò Riina mi sento di fare un invito ai mafiosi – dice il dirigente del dipartimento legalità e memoria storica della Cgil di Palermo, Dino Paternostro -. Riina è morto dopo tanti anni di carcere, i suoi beni sono stati sequestrati, i suoi figli sono in carcere. Provenzano è morto in carcere, Liggio è morto in carcere. Veramente la vita dei mafiosi è una vita che conviene? Non sarebbe il caso di dedicare la propria vita invece per dare un contributo per la liberazione della Sicilia, e di Corleone soprattutto, percorrendo la strada della legalità?».
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